Seduto con due amici di Alleghe sulla sommità della Civetta, stavamo ammirando, affascinati e stupiti, lo spettacolo delle cime dolomitiche illuminate dal sole. Avevamo identificato il piccolo “ometto” che difendeva il libro di vetta racchiuso in una custodia di alluminio. Lo avevamo firmato e riposto. Nel silenzio solenne della vasta pietraia grigia, dopo aver scattato alcune foto, udimmo un suono come di un lamento. Intorno a noi, a quota 3220, sulla sommità deserta della cima, non c’era alcun segno di vita oltre la nostra presenza e quella dei gracchi che volteggiavano sopra le nostre teste. Ci guardammo negli occhi, certi che non si trattava di una allucinazione dovuta all’altezza. Ebbe così inizio, quel pomeriggio di settembre 1962 un avventuroso salvataggio ad alta quota che mi ha visto testimone e partecipe con i due amici alleghesi, il dott. Paolo De Toni, preside della scuola Media di Caprile e Gigi Fontanive, giovane imprenditore, con i quali avevo appena raggiunto la vetta.
La sera precedente eravamo giunti da Listolade al rifugio Vazzoler, dove l’allora gestore Armando Da Roit ci aveva subito avvertito che il giorno successivo, venerdì, tutto il versante zoldano della Civetta era stato interdetto al transito per le esercitazioni di tiro in prossimità del Pian della Tenda. Il mattino seguente fu sufficiente una telefonata al Comandante la Caserma di Agordo che conoscevo, per avere via libera al percorso in quanto le esercitazioni militari di quel venerdì prevedevano solo movimenti di truppa con qualche tiro a salve. La conoscenza di questa circostanza fu una vera fortuna perché ci permise di violare il divieto di transito che non era stato possibile revocare e che avrebbe, invece, continuato a tenere lontani dal percorso altri escursionisti.
Partimmo dal rifugio Vazzoler a mattina inoltrata. In tranquillità e sicurezza, per la via ferrata Tissi ancora nel tracciato originario del 1938, raggiungemmo dapprima il rifugio Torrani, quindi la vetta dove quei misteriosi suoni avevano attratto la nostra attenzione e sempre più apparivano come chiare invocazioni di aiuto. Iniziammo immediatamente sistematiche ricerche scendendo dalla vetta dapprima insieme, quindi divisi. Fu così che dopo circa mezz’ora di ricerche, riuscimmo ad identificare camuffato dalle pietre, la sommità esterna di un grosso zaino grigio conficcato in un crepaccio da dove, inequivoche, giungevano le invocazioni ed i lamenti. L’escursionista giaceva incastrato e sospeso entro due spuntoni rocciosi, dai quali era del tutto nascosto mentre emergeva solo quello zaino grigio che le pietre circostanti camuffavano. Chiamando a raccolta tutte le nostre forze riuscimmo dapprima a staccare il ferito dallo zaino che lo reggeva come una grossa testuggine rovesciata; quindi separato lo zaino di oltre 20 chili di peso, ponemmo lo sconosciuto escursionista, tutto insanguinato in volto, dapprima a sedere appoggiandolo ad un sasso, quindi disteso sui sassi.
Lo sconosciuto continuava ad emettere lamenti sia per le visibili ferite sia per le forti contusioni delle ripetute cadute, come provavano le tracce di sangue riscontrate tutto intorno. Non c’era in prossimità anima viva. Non c’era persona o escursionista cui chiedere aiuto per gli sforzi che ci aspettavano per tirarlo fuori da quella trappola e metterlo sotto un riparo prima della sera. Il solitario escursionista, certamente tedesco dall’equipaggiamento tipico di montagna, era ben infortunato ed in condizioni apparentemente gravi. Con l’acqua delle borracce ed un fazzoletto Gigi deterge e pulisce il volto. Questo semplice gesto dà momentaneo sollievo al ferito. Ma non potevamo rimanere in posizione di inutile attesa per tutto il pomeriggio, perché stante il divieto nessun escursionista sarebbe giunto sulla vetta. L’unico ricovero possibile da raggiungere era solo il rifugio Torrani che, anche se chiuso e senza gestore, era accessibile ed attrezzato per l’emergenza. Fu lo stesso infortunato che, dopo essere rimasto a lungo disteso sui sassi, faticosamente e con continue smorfie di dolore, riuscì ad acquistare una posizione precaria, ma eretta. La sua dolorante collaborazione ci permise, sorreggendolo per le spalle, di scendere lentamente, con continue soste, l’impervio sentiero sassoso fino a raggiungere il rifugio.
Mentre il dott. De Toni risale il pendio per recuperare sotto la vetta lo zaino dell’escursionista, una rapida ispezione del rifugio da parte di Gigi consente di aprire la porta e una finestra ed anche di rintracciare, all’interno, legna, fiammiferi, una tanica d’acqua, del vino, peraltro inutilizzabile, della pasta e del riso e qualche dado. Oltre ad alcune coperte e delle candele: beni di valore inestimabile per riparo dal freddo che già si faceva sentire con il calare del sole. Il ferito tutto dolorante e chiaramente provato sia dalle ferite sia dalla fatica della lunga discesa, fu adagiato sul giaciglio utilizzando le coperte un po’ umide, ma estremamente preziose. E lì rimase immobile ed esausto fino al giorno successivo, all’arrivo dei soccorritori. L’acqua si rivelò di estrema importanza per alleviare l’arsura anche della febbre. Losconosciuto aveva preso a lamentarsi, senza pronunciare parole, ma rimanendo in uno stato confusionale.
Ritornato il De Toni con la zaino dell’escursionista, aperte le tasche esterne, in una trovammo il passaporto ed altri documenti che ci permisero di identificarne l’identità e la provenienza. Si trattava del prof. Hubertus Ottmann, di 37 anni, cappellano cattolico, nato a Breslau e residente ad Hannover. Dalle tasche dello zaino emerse anche un prezioso genere di conforto: una fiaschetta metallica, sopravissuta ai colpi delle rovinose cadute, contenente ottima grappa di prugne, cioè sligowiz, come sentenziò l’amico Gigi, risultata utilissima anche per la assistenza al ferito durante la lunga notte.
Fu subito presa una decisione per uscire da quella situazione di isolamento e mettere quanto prima il ferito nelle condizioni di essere ricoverato. Il dott. De Toni sarebbe sceso al rifugio Coldai. Qui avrebbe cercato di mettere insieme una prima squadra di intervento per la assistenza. Mentre per il ricupero del ferito avrebbe allertato il soccorso alpino di Alleghe per organizzare il ricupero e il ricovero dell’escursionista ferito. Il dott. De Toni si dileguò rapidamente tenendo conto delle poche ore di luce che rimanevano a sua disposizione. Solo un esperto della zona come lui, dalla forcella Alleghe, al buio, sarebbe stato in grado di raggiungere i piani di Pezzè e quindi Alleghe, nella stessa nottata.
Il seguito fa parte della cronaca dei giornali locali che danno ampio risalto all’avvenimento. Raggiunto, al buio, il rifugio Coldai, il dottor De Toni racconta al gestore Giosuè Da Pian il ricupero del ferito in vetta e il suo ricovero al Torrani. Un escursionista presente parte immediatamente per Forno di Zoldo ed organizzare una squadra di quel Soccorso Alpino. Anche il dott. De Toni prosegue per malga Pioda e forcella Alleghe per raggiungere Alleghe. Qui il Capo Stazione del Soccorso Alpino Ermanno De Toni organizza una squadra di soccorso che nella stessa notte parte da Alleghe per il rifugio Coldai e quindi per il rifugio Torrani. Ma calcolando tutte le difficoltà per il trasporto di un ferito da quella altezza inconsueta (non vi erano, allora né elicotteri per ricuperi ad alta quota, né telefonini per coordinare i collegamenti) si mette subito in contatto telefonico con Armando Da Roit, gestore del rifugio Vazzoler e Capo della efficiente ed organizzata stazione di Soccorso Alpino di Agordo. Quest’ultima è dotata di esperti scalatori e di idonee attrezzature per fronteggiare tutte le emergenze ad alta quota ed in parete. Anche la stampa viene informata. Nella edizione di Belluno del Gazzettino di sabato 15 settembre 1962, esce un trafiletto:
“Sacerdote tedesco ferito sul Civetta. È stato trovato a duecento metri dalla vetta da tre alpinisti del soccorso alpino di Alleghe i quali hanno provveduto a trasportarlo al rifugio ‘Torrani’, situato a 300 metri dalla vetta. Quindi uno dei tre è sceso ad Alleghe a dare l’allarme. Mentre andiamo in macchina sono partite dallo Zoldano squadre del Soccorso Alpino con lo scopo di portare al ferito l’aiuto necessario”
Mentre nella notte tutto il mondo alpinistico del fondovalle agordino e zoldano e in grande fermento di preparativi per le operazioni di soccorso, nel rifugio Torrani io e Gigi Fontanive al fioco lume di una candela ci avvicendiamo nella assistenza del ferito, il quale, sempre immobile sulla panca, passa dal sonno alle frasi sconnesse del dormiveglia. Gigi di tanto in tanto gli umetta le labbra ora con acqua, ora, a mia insaputa, con lo sligowitz. Fa freddo ed umido. Siamo riusciti a mangiare qualche cosa, avendo trovato sui ripiani della stanza due indigeste porzioni di carne in scatola, sicuramente dimenticate da qualche cordata di passaggio. Fatta di necessità virtù, percorriamo a lunghi passi lo spazio angusto del rifugio per sopportare meglio il freddo, dato che tutta la dotazione di coperte era stata impiegata per il giaciglio del sacerdote. Ad un certo momento della notte l’amico Gigi mi sveglia dal torpore scuotendomi di soprassalto:
“Senti, Sorge, senti come parla strano il nostro ferito!”
Pensando a qualche cosa di grave, al lume di candela mi avvicino al giaciglio e tra i lamenti sento il sacerdote che in latino sussurra: “Pro anima mea. Orate pro anima mea”.
“Stai calmo. Sta solo pregando per la salvezza della sua anima. E ci invita a fare altrettanto”.
La prima squadra di soccorso che giunge al rifugio Torrani è quella di Alleghe. Hanno viveri di conforto, soprattutto the e caffè. Sono cinque persone, tra cui un medico che visita immediatamente il ferito e ne valuta le condizioni. Ha la febbre, ma non è grave né sembra abbia subito rotture interne tali da pregiudicarne il trasporto. Arrivano quasi subito anche la squadra di Forno di Zoldo e quindi, dalla ferrata Tissi, quella di Agordo guidata da Armando Da Roit e una decina di esperti scalatori, tra cui il mitico “Topo”, con corde, paranchi, carrucole e soprattutto una barella flessibile per il trasporto del ferito. Armando Da Roit prende il comando delle operazioni, verifica i materiali disponibili, stabilisce le modalità della discesa ed i vari ruoli. Furono suddivisi fra tutti i presenti i compiti. In quella situazione tutti erano essenziali per la sicurezza del trasporto del tutto inconsueto. Per una decina di minuti la terrazza antistante il rifugio fu animata come un giorno di festa, fra corde, piccozze, tintinnar di chiodi e martelli. E quando il sacerdote ferito uscì ben legato e immobilizzato in barella dalla porta del rifugio, fu accolto dal caloroso saluto di tutti presenti. Quindi ebbe inizio la discesa per la via normale. Dopo aver raggiunto il rifugio Coldai e quindi malga Pioda, il sacerdote ferito fu caricato su una jeep che si era portata incontro alle squadre di soccorso fin dove la strada lo permetteva. A Goima di Zoldo Alto era giunta, da Agordo, anche una autoambulanza di quell’Ospedale Civile che aveva preso in carico il ferito. Stante le sue particolari condizioni ne fu deciso il ricovero alla clinica Codivilla di Cortina d’Ampezzo. Oltre alla frattura del polso e ferite lacero contuse al volto contusione cranica ed escoriazioni multiple, il prof. Hubertus Ottmann fu giudicato guaribile in un mese, salvo complicazioni.
Con una piccola “comet II” ho fotografato ogni passaggio nevralgico del viaggio di ritorno dalla gita alla Punta Civetta. Il ricupero e il trasporto del ferito furono eseguiti con perizia ed abilità da tutti gli operatori del Soccorso Alpino coordinati dal Da Roit. Sono fotogrammi che documentano la complessità e il rischio di alcuni passaggi con la barella del ferito, ora in posizione orizzontale, ora in verticale. Il rude linguaggio montanaro sottolineava la delicatezza delle operazioni più complicate, comprese le espressioni fiorite, ma sintetiche, poco consone allo status sacerdotale del trasportato. Di quella esperienza ad alta quota sulla Civetta, ma non fu l’unica, restano la foto di vetta scattata dall’amico Gigi, poco prima di udire i lamenti del ferito incastrato nel crepaccio ed una lettera del Prof. Ottmann, giunta da Hannover dopo qualche mese, che ringrazia con affetto per la fraterna testimonianza di solidarietà.
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