Una introduzione autorevole al corso dell'autunno 2011.
I fiori di montagna rappresentano nell’immaginario collettivo uno degli aspetti più suggestivi della stessa montagna; di quella nei cui paesaggi s’alternano in romantica armonia prati luminosi, boschi austeri e rocce precipiti. Se poi ai fiori di montagna genericamente e confusamente intesi si accosta l’immagine della stella alpina, il quadro relativo alla “flora alpina popolare” risulta completo.
Giglio dorato (Hemerocallis lilioasphodelus), liliacea endemica, tipica dei luoghi umidi e stillicidi osi; vegeta dal piano fino a 1300 m slm
Ebbene, modificare questa visione semplicistica e romantica al tempo stesso, non è facile; e non è neppure facile modificare i comportamenti della gente che frequenta la montagna, dei suoi visitatori occasionali e di quelli della domenica. Questi stessi, infatti, sono spesso impegnati a raccogliere fiori per comporre “mazzi multicolori”, al solo scopo di portarsi a casa un minuscolo frammento della bellezza dell’ambiente montano.
Ricordo, a questo proposito, la campagna di educazione collettiva condotta dal CAI negli anni Ottanta, con la diffusione di cartelli in cui era riportato il messaggio che recitava: “chi ama la montagna le lascia i suoi fiori”. Ma desidero altresì ricordare la normativa a livello regionale e per ciascuna area protetta, in cui si elencano le specie floristiche di cui è assolutamente vietata la raccolta; o in cui si afferma semplicemente che la raccolta è del tutto vietata.
Tutto questo costituisce una conquista culturale relativamente recente e basterà sfogliare un qualsiasi vecchio volume della biblioteca di casa per ritrovare tra le pagine qualche stella alpina essiccata: ricordo di altri tempi o pegno di amori trascorsi da lungo tempo.
Negli ultimi decenni, a seguito di questi permanenti sforzi di educazione collettiva, va detto comunque che la situazione è cambiata. Non si è risolta, certo, ma è cambiata in meglio; anche se permane una diffusa ignoranza in relazione alla flora montana e alpina genericamente intesa ed a quella minore – ai fiori di montagna appunto – in particolare.
La cosa, si badi bene, è del tutto normale: l’interesse per le Scienze Naturali della nostra società – nell’Italia del Terzo Millennio - continua ad essere bassissimo. E anche se nell’ambiente CAI la sensibilità risulta sicuramente maggiore, raramente questo interesse si traduce in conoscenza, in capacità di interpretare i paesaggi, le situazioni d’ambiente, di leggere i biotopi e di riconoscere gli elementi-guida di un’aggregazione floristica spontanea.
Prateria calcarea in fiore con Raponzolo emisferico (Phyteuma haemisphaericum) e Lupinella montana (Onobrychis montana)
La giustificazione, comprensibile, riguarda nel merito l’oggettiva complessità del tema; la necessità di disporre di conoscenze specialistiche che nessuna scuola, se non i corsi specifici a livello universitario, è in grado di dare. Il risultato è che ci si limita ad una conoscenza scarsa e nozionistica, che si traduce nell’identificazione occasionale di specie come il Giglio martagone (Lilium martagon), il Giglio bulbifero (Lilium bulbiferum), l’Aconito napello (Aconitum napellus) e, ovviamente, la Stella alpina (Leontopodium alpinum), che oltre tutto, per essere di origini asiatiche, “alpina” lo è davvero poco.
Tutto questo, si potrà obbiettare, incide comunque davvero poco sull’andare in montagna; sullo scarpinare attraverso sentieri più o meno acclivi e più o meno impervi per raggiungere una meta d’altitudine. Le gratificazioni garantite da questa attività sono comunque numerose e vanno ben oltre il mero esercizio fisico.
Questo è vero, ma così facendo si rinuncia ad una speciale sintonia con la montagna vivente, che diviene semplicemente “contenitore indistinto”, di volta in volta benevolo – quando si attraversa una prateria fiorita – o fonte di sofferenza – quando si percorre una mugheta sotto il sole agostano o una pecceta gelata nel cuore dell’inverno.
Altra cosa è la capacità minima di lettura e interpretazione della realtà in cui ci si trova estemporaneamente inseriti. Questa consente infatti di appartenere a pieno titolo al contesto d’ambiente e di esserne in qualche modo “protagonisti culturali”. Consente altresì di godere della bellezza, di tutte le forme di vita che ci circondano e in cui si esprime la bellezza; compresi ovviamente i benedetti “fiori di montagna”.
Ma parliamo brevemente dei fiori, ovvero dell’oggetto di questo mio breve intervento.
L’espressione stessa “fiori di montagna” è fuorviante, poiché molto spesso, quando si usa questa espressione ci si riferisce in realtà ai “fiori alpini”. A quelli cioè che si osservano nella fascia altitudinale superiore; sui ghiaioni, sulle rupi, nelle conche glaciali, nelle torbiere d’alta quota o sulle morene. E’ questa, in effetti la flora di montagna più preziosa; nel senso che è questa stessa ad esprimere le forme di adattamento all’ambiente più sorprendenti; morfologie assolutamente estreme coniugate con la vitalità più incredibile e con i colori più ammalianti.
Giglio martagone (Lilium martagon), liliacea dei prati-pascolo e delle radure forestali del Piano Montano
Questo va detto, ovviamente, senza fare torto alle piante delle quote inferiori, del Piano Montano, appunto. Piante queste ultime spesso parimenti vistose, anche se più difficili da estrapolare dal contesto, in quanto sovente inserite in comunità floristiche complesse, quali appunto i prati, i prati pascolo, le boscaglie e i boschi.
Nell’approccio alla conoscenza della flora alpina e di quella erbacea in particolare, si dovrà peraltro abbandonare mentalmente lo schema per cui le specie più importanti sono quelle a fiori più vistosi. Il criterio estetico o estetizzante risulta infatti del tutto fuorviante; e se questi particolari elementi non vanno comunque trascurati, dovrà invece prevalere il criterio della valenza ecologica e della “specie-guida”.
La stessa specie guida di un’aggregazione floristica risulta spesso tutt’altro che rara, ma la sua presenza appare determinante per indicare quella di un’aggregazione speciale e più o meno definita, cui appartengono magari anche specie a fioritura vistosa o specie rare.
Lo stesso concetto di rarità di una specie floristica, che risulta oltretutto ricco di implicazioni e molto relativo, non appare in se sufficiente per la valutazione e l’apprezzamento di una presenza o dell’insieme in cui questa stessa è inserita. Spesso poi le specie rare sono per nulla vistose e questo, ovviamente, non gioca a favore della loro individuazione.
Genziana rossigna (Gentiana pannonica), genzianacea vistosa, vegeta nei prati magri tra i 1400 e i 200 m slm
Ricordo, a questo proposito e a titolo di aneddoto, il mio primo incontro con il mito dei fiori alpini: la Pianella della Madonna (Cypripedium calceolus). Il fatto accadde oltre trent’anni or sono, ma al tempo avevo già percorso molte valli, attraversato versanti e salito vette, sempre senza incontrarla. Poi un giorno, sul sentiero che raggiungeva un bivacco sul versante nord dell’Agner – se non ricordo male – percorrendo una mugheta mi ritrovai faccia a faccia con questa orchidacea, che com’è noto è la più vistosa della flora continentale. Ricordo che mi commossi e che scattai ben cinque diapositive, superando decisamente e inconsultamente il limite che la fotografia analogica e le ristrettezze economiche mi imponevano in quegli anni. Qualche tempo dopo, però, avendo deciso di studiare la flora alpina al fine di attrezzarmi culturalmente per cogliere appieno il suo significato e la sua bellezza, scoprii che il mito non era quello della bellezza della specie, ma quello della sua rarità.
Oggi, quando desidero incontrare questa splendida pianta e scattarle un centinaio di immagini – pratica a basso costo, consentita dall’avvento del digitale – so che basta coniugare il suo habitat tipico e la sua fascia altitudinale elettiva con il periodo della fioritura e l’impresa diviene possibile e tutt’altro che particolarmente difficile.
Tornando alla cultura naturalistica necessaria per accedere a questo universo vivente ricco di fascino e di segreti, va detto che essa è indispensabile per impadronirsi delle chiavi di lettura di una componente che costituisce una parte importante dell’anima vivente delle montagne che riempiono la nostra vita. Ma va altresì detto che questa stessa cultura è utile per salire un gradino ulteriore nella stessa cultura generale della montagna. E infine che essa appare indispensabile anche per essere assegnati alla categoria speciale di escursionisti che è in grado di rispondere alla fatidica – quanto inutile – domanda: “Che fiore è?” Fatta regolarmente e insistentemente da chi non conosce nulla di queste cose.
Ebbene, la soluzione per appropriarsi di questo bagaglio di conoscenze può essere quella di frequentare il corso proposto dal Comitato Scientifico Veneto Friulano-Giuliano del CAI ed organizzato, per l’autunno, dalla sezione CAI di Conegliano.
Certo, sono soltanto una decina d’incontri. Ma il fatto che a tenere le lezioni frontali siano esperti di preparazione e di capacità riconosciute – fa eccezione, ovviamente, chi scrive – potrà consentire un approccio efficace per acquisire la conoscenza. Potrà soprattutto offrire il vantaggio di un metodo, con la definizione di efficaci chiavi di lettura e inoltre potrà offrire un corollario di concetti-base che costituiscono i presupposti più importanti per avventurarsi lungo i sentieri difficili e bellissimi al tempo stesso, della stessa conoscenza botanica.
Le dieci lezioni - poiché anche l’incontro di apertura tenuto da Anacleto Boranga va inteso in questo senso - e le due escursioni in ambiente, consentiranno di affrontare una delle escursioni virtuali più affascinanti della esperienza di montagna di ciascuno.
Sarà un viaggio attraverso i significati della bellezza, in cui scoprire, appunto, che quest’ultima in Natura non è mai fine a se stessa, ma risulta determinata da precise ragioni funzionali e dunque da segreti dispositivi di sopravvivenza.
Fiore di Astranzia maggiore (Astrantia major) con sirfidi pronubi. La specie vegeta nelle comunità di alte erbe al margine delle superfici forestali
Personalmente non sono certo che, al termine del corso, le nostre montagne potranno contare sul contributo esplorativo e divulgativo di cinquanta nuovi naturalisti-botanici. Sono invece sicuro che esse potranno svelarsi ad essi in tutta la loro affascinante complessità e la loro frastornante ricchezza floristica, proprio grazie al contributo formativo offerto dal corso.
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