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Il versante lapisino del Col Visentin

Il versante lapisino del Col Visentin

Escursionismo e storia di un ambiente selvaggio

Articolo pubblicato su "Le Alpi Venete" n.2 -2014

Introduzione

Panorama sul Lago di S. Croce e l’Alpago lungo il sentiero n.950 Il Col Visentin con i suoi 1763 m è la cima più alta della dorsale Prealpina interposta tra la Val Belluna e la provincia di Treviso. La sua vetta si scorge da ogni località della pianura trevigiana e, nelle giornate più limpide, si intravede addirittura dalla laguna di Venezia. Chiude a sud la Val Belluna, dove appare con un aspetto quasi collinare, mentre a meridione, verso la Val Lapisina, assume un carattere alquanto severo, con pendii aspri e scoscesi. È la porta delle Dolomiti per tanti sciatori ed escursionisti che sono soliti attraversare frettolosamente la sella del Fadalto nei fine settimana verso vette più vocate e, forse per questo, rimane un po’ trascurato. Ma c’è chi lo ha saputo valorizzare trasformandolo in un fedele compagno di escursioni perché in verità sa offrire percorsi e panorami di straordinaria bellezza. Dalla sua sommità la vista spazia contemporaneamente sulla pianura veneta e sulle cime alpine. Le Dolomiti bellunesi svettano a nord, estendendosi tra le Vette Feltrine, i Monti del Sole e il gruppo dello Schiara, mentre in secondo piano si alzano maestose le cime della Marmolada, del Civetta, del Pelmo, dell’Antelao e molte altre ancora. Il Piave riempie con il suo tortuoso cammino la Val Belluna e, se si volta lo sguardo a sud, lo si vede sbucare nuovamente mentre lambisce Valdobbiadene ed il Montello. Sullo sfondo, i colli Asolani fanno da spettatori, mentre al piede del versante meridionale emergono le splendide colline che caratterizzano l’area di Vittorio Veneto, di Conegliano, di San Pietro di Feletto, di Follina, di Combai fino alle ricche aree vitivinicole di Valdobbiadene. Dall’altra parte della Val Lapisina si estende l’altopiano del Cansiglio, contornato dalle vette del Pizzòc e del Millifrét, così vicine che sembra quasi di toccarle. Ed infine a nordest la vista si perde sull’anfiteatro montuoso dell’Alpago, che si specchia sul sottostante lago di S. Croce. I sentieri del versante nord sono quelli più noti e familiari: a partire dal Nevegàl fino ad arrivare al Rifugio 5° Artiglieria Alpina sulla cima del Visentin, si estendono parecchi percorsi da fare a piedi o con la mountain bike, mentre sono ben pochi gli escursionisti che affrontano l’impervio fianco sudest, quello che si affaccia ripidamente verso il Fadalto. Sono queste le aree che hanno fatto la storia di una secolare attività di pascolo e di sfalcio oggi inesorabilmente scomparsa a causa delle trasformazioni socio-economiche prodotte dalla modernizzazione. Una vita dura, fatta di pietre e di erba da strappare dalla terra magra, tanto raccontata nei libri di Giovanni Tomasi e di Ugo Mattana, oppure dal neorealismo cinematografico del regista Taffarel nel cortometraggio “La montagna del sole”. Le malghe e le casere che hanno ospitato intere generazioni di contadini e pastori sono ormai ridotte a cumuli di pietre. Per avere un’idea di quanto intensa fosse la frequentazione dell’uomo in queste aree, basti pensare che tra il Passo S. Boldo ed il Fadalto si estende una ramificazione impressionante di vecchi tracciati, ancora oggi percorribili. Oltre a questo aspetto, si contavano ben settanta teleferiche costituite da un filo tondo di acciaio, più tardi rimpiazzato dal cavo a treccia, che servivano a trasferire il fieno a fondovalle. Una certa attività di alpeggio costituita da pascolamento ovino e bovino rimane ancora presente nell’area del Faverghèra, del Col Torónt, del Col Collón, a Pian dei Grassi e verso Pian de le Fémene. Altrove, come ad esempio nelle storiche aree dell’Armada e del Verdìl, tale attività è totalmente scomparsa. Anche nei centri abitati della Val Lapisina è percepibile un notevole calo demografico, amplificato dal prolungamento del tratto autostradale che, deviando il traffico dalla vecchia statale Alemagna, ha comportato un’inevitabile declino di buona parte delle attività commerciali. Sebbene il versante lapisino sia particolarmente impervio e le condizioni ambientali non siano certo tra le migliori per l’insediamento abitativo, alcune aree poste ai margini laterali sono state occupate da graziose borgate che si dispongono laddove la pendenza si fa meno severa. Oltre agli abitati posti a fondovalle (Longhère, Savàssa, Forcàl, San Floriano, Nove, Fadalto, Lastra e S. Croce del Lago), sopra lo sperone roccioso che guarda Pié di Fadalto, detto Croda de la engia, sorgono dei piccoli borghi dove il tempo pare essersi fermato: Calòniche, o meglio Canoniche o Calòneghe come sarebbe più corretto dire, si suddivide nelle borgate “di sotto” e “di sopra” ed a queste si unisce borgo Brìgola. Sono protetti da un cordone morenico di origine glaciale e situati in un luogo caratterizzato da piccoli prati e dolci collinette, condizioni ideali quindi per l’insediamento umano. Un tempo qui erano residenti parecchie famiglie che vivevano di pastorizia ed agricoltura, mentre oggi quasi tutte le case sono disabitate. Similmente, più a sud, si incontra l’area di Faìs, composta da numerosi borghetti che hanno rappresentato un capitolo a se stante nell’economia agraria locale: Vizza, Previdàl, Trubiàn, Collón, Menegón, Olivi e Croda Rossa punteggiano i ripidi pendii che dal Visentin scendono a fondovalle fino alle porte di Serravalle, poco a nord di Vittorio Veneto.

La rete sentieristica

A dispetto di questo “paesaggio dell’abbandono”, negli ultimi anni questa montagna sta vivendo un certo risveglio, promosso dai numerosi escursionisti che stanno riscoprendo sentieri poco noti o del tutto sconosciuti. Ciò si deve ad una scelta molto vasta di tracciati, unitamente ad una notevole facilità di avvicinamento in auto. Tutto il versante esteso tra la Val Storta nei pressi di Revìne fino a Santa Croce del Lago è pieno di sentieri di ogni livello di difficoltà, una cinquantina in tutto: dal semplice anello attorno ai laghi di fondovalle, ai lunghi sentieri di alta quota, dalla tranquilla passeggiata tra le vecchie case in pietra di storici borghi, ai passaggi impegnativi su aree impervie ed apparentemente inaccessibili. Tra i più belli va ricordato senz’altro il Trói de Mèdo, parte del sentiero CAI n.985 detto “Trói de le Casere”. È un lungo tracciato che taglia in orizzontale la spalla meridionale del monte, rimanendo all’incirca ad una quota di 1400 m. Veniva utilizzato dai pastori per raggiungere le aree di sfalcio e per portare le greggi al pascolo. I panorami che offre verso la valle sono stupendi, ma va affrontato con buon allenamento e passo sicuro. Vi sono poi dei sentieri alquanto faticosi che salgono quasi verticalmente superando l’intero dislivello offerto dal monte. Uno di questi è il “Trói de la Montagna” che si sviluppa a partire da Nove fino ad incrociare il n.985 sopra descritto. Altri due si trovano più a nord, a cavallo del confine bellunese. Si tratta del “sentiero del Verdìl” che dalle Calòniche sale verso i pascoli dell’Armada fino ad incrociare il “sentiero delle Creste” nei pressi delle casere Mognói (coincide anche con l’alta via TV1 “dal Grappa al Cansiglio”). L’altro è il “sentiero n.950” che parte dall’abitato di S. Croce del Lago e si alza con notevole salto altimetrico fino al Rifugio Brigata Alpina Cadore sul Monte Faverghèra passando per i prati del Concanìn. Vi sono anche sentieri molto antichi, come ad esempio il Tràgol de Rova citato già in epoca medievale. Collegava l’abitato di Savàssa con Croda Rossa e ancora oggi è visibile un tratto con il fondo lastricato originale. Sono soltanto alcuni esempi di quel che può offrire il Visentin e oltre alle grandi direttrici vi sono i sentieri minori che si ramificano creando delle interconnessioni utili per studiare innumerevoli combinazioni di escursioni. Interessante ad esempio un vecchio sentiero che serviva a raggiungere l’area del Tombarìl attraverso un imponente androne roccioso di origine carsica usato come ricovero dai pastori, il Landro de le Strapée. Ed infine, sembra di no ma anche il Visentin come le altre vette dolomitiche offre vere e proprie vie alpinistiche aperte in tempi recenti. Sono tutte concentrate sul versante che guarda il lago Morto: la “Via del Tanga” è un traverso molto esposto che parte dal Viàz del engión e termina al Landro de le Strapée; a questa si aggiunge la “Via della Pèrtega” che incrocia perpendicolarmente il Tanga. Entrambe sono state aperte tra il 2007 ed il 2011 da Maurizio Bozzolo (rispettivamente: sviluppo 1.250 m e 600 m, difficoltà da III a IV). Assai più impegnative a livello alpinistico risultano tre vie aperte tra il 1998 ed il 2001. Una di queste è la “Via dei Mostri” (Andrea Spavento, Claudio Rigo, Stefano Ferro – 10 ottobre 1998 – difficoltà da V a VII, A2). Si svolge lungo la lastronata calcarea ben visibile dal fondovalle, nota come “Le Lisse”, con uno sviluppo verticale di 280 m ed un tempo previsto di 4 h. In realtà a fianco di questo tracciato esistevano già un paio di vie aperte in precedenza, (rispettivamente: “Via a sinistra”, sviluppo 60 m, difficoltà non classificata, “Via a destra” sviluppo 30 m, difficoltà VII+). Più a sinistra, sfruttando un colatoio, si articola la “Via mio padre Franko” (Alberto Boscolo, Andrea Spavento – 27 settembre 2001 – difficoltà da V a VII, A0), che si sviluppa per 250 m in circa 4 h. Infine, spostandoci a destra della Via dei Mostri, si incontra la “Via Cristina” (Andrea Spavento, Lucio Boschian - 15 novembre 2001 – difficoltà da IV a VI-VII, A0 A1). Presenta un notevole sviluppo (500 m) e l’arrampicata si svolge in un ambiente prettamente selvaggio. Tempo previsto circa 3 h 30’. Oltre a queste ascensioni esiste anche una palestra di roccia, situata nei pressi dell’abitato di Fadalto Basso. Fu ideata da un gruppetto di rocciatori guidati da Rino Costacurta ed inaugurata ufficialmente il 7 ottobre 1979 dal CAI di Vittorio Veneto. Inizialmente presentava soltanto una decina di vie, mentre oggi se ne contano molte di più, suddivise in settori il cui nome si riferisce alla vecchia numerazione di origine. Le vie superano una parete costituita da ottima roccia calcarea e sono state attrezzate con ancoraggi resinati, spit e catena di arrivo.

Una curiosa leggenda: un borgo nato da un tesoro austriaco

C’era una volta, reciterebbe una fiaba, ed anche qui si potrebbe iniziare così per raccontare una episodio che parrebbe una leggenda ma che invece sembra essere sostenuto da fatti realmente accaduti. Orlando Beltramìn, uno degli ultimi anziani che ricordano la vita di un tempo nei borghi sopra il Fadalto, racconta che durante l’occupazione austriaca, a metà Ottocento, le truppe erano solite transitare per le tortuose strade della Val Lapisina, facendo sosta nei vari borghi, come a Pié di Fadalto. Qui un bel giorno si fermò una guarnigione che aveva con sé un forziere postale. Non si sa per quale motivo, ma quando i militari ripresero la marcia, lo lasciarono in paese, dimenticandolo. Fu scoperto da tale Antonio Balbinòt detto “Tòna Tonèi”, il quale rimase non poco sbalordito per l’accaduto. Che fare? Impossessarsene? Attendere? La scelta era assai pericolosa, perché a quei tempi non c’era certo da scherzare con l’invasore e, se fossero tornati sui loro passi, sarebbero stati guai seri. Pensò bene di nascondere la cassaforte nel letamaio della sua stalla, dove difficilmente avrebbero messo mano, se non altro per la puzza! Attese qualche giorno con ansia, ma di soldati austriaci nemmeno l’ombra. Fu così che poté dirigersi sotto la Croda de la engia, dove oggi sorge la palestra di roccia, e lontano da sguardi indiscreti ruppe i sigilli, scoprendo che era pieno di monete d’oro. Non era certo facile giustificare tutto quel denaro, ma pare che Tòna Tonèi con quella fortuna riuscì in qualche modo a comperare molti terreni attorno a Fadalto, fino ad allora appartenuti a ricche famiglie vittoriesi come i Marson e i De Mori. Tra quelle proprietà vi era proprio l’area di Brìgola, che nelle antiche mappe napoleoniche e austro ungariche viene riportata come Val Calde. E la somma era talmente elevata che servì a costruire nuove case e così nacque borgo Brìgola. Non sappiamo se questa sia leggenda o verità, ma il fatto che tra gli anziani del luogo sia ancora vivo il ricordo di questo episodio e soprattutto che esista realmente un forziere austriaco oggi custodito da alcuni discendenti dei Balbinot, sembra avvalorare questa incredibile vicenda sulle origini del borgo.

Geologia e geomorfologia del territorio

Il Col Visentin (1763 m) è la vetta maggiore della lunga dorsale prealpina estesa tra la stretta di Quero e Sella di Fadalto. E’ parte di un massiccio che si compone di altre cime aventi quote relativamente minori che si dispongono in successione dal Pian de le Fémene fino ad arrivare alle più modeste alture di Cugnàn, lungo una linea che per buona parte segna il confine tra le province di Treviso e Belluno. A partire dalla cima del Visentin, in direzione sud-ovest si succedono il Col dei Magói (1561 m), il Monte Agnellezze (1502 m) il Monte Pèzza (1436 m), il Col delle Poiatte (1344 m) ed il Monte Còr (1322 m), mentre in direzione nord-est si incontrano le cime del Col Torónt (1655 m), del Monte Faverghèra (1611 m) e del Monte Pascolét (1278 m), questi ultimi due in territorio bellunese.

Da un punto di vista geologico, la dorsale delle Prealpi trevigiane è modellata in corrispondenza di un’anticlinale (le anticlinali sono pieghe con la convessità rivolta verso l’alto ed hanno al nucleo terreni più antichi) che si allunga secondo la direzione WSW –ENE e che rappresenta il proseguimento verso nord-est di una simile struttura costituente il massiccio del Monte Grappa. Più in dettaglio si tratta di un’anticlinale asimmetrica: infatti, mentre gli strati sul versante bellunese presentano pendenze poco accentuate, sul lato trevigiano sono molto più inclinati, tanto da assumere giaciture sub-verticali o addirittura risultare rovesciati. La piega in questione si è formata nelle ultime fasi dell’Orogenesi Alpina (5-8 milioni di anni fa) ma le spinte che l’hanno generata non sono ancora del tutto esaurite, come dimostra l’elevato grado di sismicità che si registra in tutta l’area prealpina. Alla struttura anticlinalica è associato un fascio di faglie noto come “Linea di Bassano – Vittorio Veneto” e la sua prosecuzione verso nord-est indicata come Linea “Longhère – Fadalto – Càdola”.

Al piede del versante meridionale della dorsale, nel tratto compreso tra Vittorio Veneto e il corso del fiume Piave, si distendono le colline trevigiane caratterizzate da una disposizione monoclinalica, con strati cioè immergenti uniformemente verso la pianura e caratterizzate dalla successione di linee di cresta e da depressioni vallive ad esse interposte. Le une si sono impostate in corrispondenza di litotipi arenacei e calcarenitici, assai tenaci, le altre sulle più tenere formazioni marnose ed argillose. Nel tratto invece compreso tra Vittorio Veneto e Sella di Fadalto, la dorsale è delimitata ad oriente dalla profonda Val Lapisina, al di là della quale si ergono le pendici occidentali del Pizzòc – Millifrét. Il fianco settentrionale dell’anticlinale si raccorda con l’ampia Sinclinale di Belluno, che a sua volta è delimitata a settentrione da una dislocazione tettonica d’importanza regionale, la “Linea di Belluno” (simile per rigetto e tipologia di movimento alla Linea di Bassano). La Linea di Belluno delimita a sud l’Anticlinale Cóppolo – Pèlf in cui è scolpita la catena delle Alpi Feltrine e Bellunesi che fa parte del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi.

Le Prealpi trevigiane e quindi anche la dorsale del Col Visentin sono costituite da una potente successione di rocce sedimentarie di età mesozoica e cenozoica. Più esattamente esse risalgono ai periodi Giurassico, Cretaceo, Paleocene ed Eocene. L’ambiente di sedimentazione nel Giurassico era contraddistinto da un solco marino (Bacino Bellunese) profondo diverse centinaia di metri, delimitato da due zone di piattaforma carbonatica: ad est si estendeva la Piattaforma Friulana e ad ovest la Piattaforma Trentina, entrambe caratterizzate da mare sottile. In prossimità del margine occidentale della Piattaforma Friulana, laddove oggi si innalza il massiccio del Cansiglio – Cavallo, durante il periodo cretacico prosperava una scogliera corallina che dalla zona di Candaglia si allungava fino all’area di Bàrcis in Val Cellìna. Sul fondo del Bacino Bellunese, invece, per molti milioni di anni hanno continuato a depositarsi fanghi carbonatici ed argillosi, assieme a numerose spoglie di microorganismi tipici di ambiente marino pelagico. Da tutto questo, per compattazione e cementazione, sono derivate varie rocce stratificate, quali la Formazione di Igne, la Formazione di Fonzaso, il Biancone (oggi ribattezzato Maiolica) e la Scaglia Rossa. Lungo la scarpata di confine tra la Piattaforma Friulana e il Bacino Bellunese si mobilitavano varie frane sottomarine, dette anche correnti di torbidità, i cui materiali hanno concorso alla formazione del Calcare del Vajónt (Giurassico) e Calcare del Fadalto (Cretaceo). Sopra queste rocce, nel corso dei successivi periodi paleocenico ed eocenico, nel vallone bellunese si sono andati sedimentando materiali argillosi ed arenacei che hanno dato origine a varie formazioni quali la Formazione di Cugnàn, la Marna della Vena d’Oro, la Scaglia Cinerea, il Flysch di Belluno. Risale ad un periodo più recente invece la caratteristica Arenaria Glauconitica di Belluno che sta alla base della cosiddetta Serie Molassica.

È interessante notare come le forme sinuose ed arrotondate delle cime più elevate del Col Visentin siano dovute alla presenza della Maiolica, che si caratterizza per la sua sottile stratificazione. Nelle aree dove emergono invece rocce più dure e massicce, come il Calcare del Vajónt, il rilievo assume una maggiore evidenza morfologica. È il caso ad esempio del versante Lapisino del Col Visentin, dove sono ben distinguibili enormi banchi costituiti da questa tipologia di roccia (le “Lisse”) Altre singolari
formazioni rocciose che appaiono isolate a quote maggiori, nel dialetto locale “crép”, sono costituiti invece da Calcare Selcifero di Fonzaso. Dopo l’Orogenesi Alpina, responsabile anche del sollevamento dei rilievi prealpini, nel periodo pleistocenico sia la Val Belluna che la Val Lapisina furono ripetutamente percorse dal ghiacciaio che scendeva dal Cadore. Delle varie glaciazioni succedutesi nel tempo, solo l’ultima, detta “Würmiana”, ha lasciato sul terreno tracce evidenti del suo passaggio, in termini sia di depositi glaciali che di modellamento delle valli. Essa manifestò il suo massimo sviluppo tra 24.000 e 16.000 anni fa. A quei tempi, all’altezza di Ponte nelle Alpi il ghiacciaio si divideva in due lingue: una percorreva la Val Belluna spingendosi fino a Quero, mentre l’altra si incuneava nella stretta Val Lapisina, dopo essersi espansa nella conca dell’Alpago dove raggiungeva la quota di 1000 m. Alle porte di Vittorio Veneto si divideva a sua volta in due rami: uno superava la stretta di Serravalle occupando la sottostante pianura dove formava le colline moreniche di Carpésica e di Colle Umberto, l’altro percorreva l’attuale valle del fiume Soligo spingendosi in avanti fino a formare lo splendido e ben conservato argine morenico frontale di Gai. Il potente ramo bellunese raggiungeva uno spessore tale da ricoprire i versanti settentrionali dei monti Faverghèra e Pascolét fino a quota 1150 m. Nella Val Lapisina – valle che conserva ancora la tipica impronta glaciale con fianchi ripidi e fondo a gradinata - il dorso del ghiacciaio raggiungeva la quota di 800 m sopra Fadalto, 700 m nella zona di Faìs e poco più di 500 m in località Piadèra, a nord-est di Vittorio Veneto. L’escavazione a gradini prodotta dal ghiacciaio sul fondo della valle, insieme agli accumuli delle frane precipitate dai versanti, ha creato le condizioni per la formazione dei laghi Lapisini, le cui acque, a partire dall’inizio del secolo scorso, continuano a far funzionare le centrali idroelettriche del sistema Piave – Santa Croce presenti a Fadalto, Nove e San Floriano. In Val Lapisina gli unici depositi glaciali certi sono visibili solamente nelle località di Faìs e di Calòniche, altrove essi sono ricoperti da detriti di versante e da corpi di frane precipitate durante la fase di ritiro della lingua glaciale a seguito del mancato sostegno esercitato dalla stessa sui ripidi pendii di valle. Tra tutte le frane risalenti a tale periodo la più conosciuta è sicuramente quella che, staccatasi dalle pendici del Monte Costa, ha formato Sella di Fadalto ed ha perciò costretto le acque di scioglimento del ghiacciaio del Piave a prendere la strada della Val Belluna. A quell’evento è collegata anche la formazione del lago di Santa Croce. Varie testimonianze di natura geologica e geomorfologica confermano che durante i periodi interglaciali, prima cioè della caduta della frana di Fadalto, un antichissimo Piave raggiungeva la pianura trevigiana passando per la Val Lapisina. Precluso il transito dall’enorme accumulo di frana, le acque furono costrette a ristagnare per lungo tempo nel vasto territorio compreso tra Santa Croce e Càdola, dove hanno depositato potenti strati di argille scure come testimoniato dai recenti sondaggi eseguiti in loco. Oltre a quella di Fadalto, sempre in età post-glaciale si staccarono dai versanti montani altre frane, come quelle di Càdola, di Nove, di Revìne e di Forcàl. Ai piedi di quest’ultima esisteva un piccolo lago che scomparve il 16 ottobre 1521, colmato da una nuova frana caduta in quei giorni.

Per secoli in Val Lapisina, sulle colline vittoriesi e lungo la valle del Solìgo funzionarono diverse cave di materiali inerti. A Fadalto e a Nove, ad esempio, fino a pochi anni fa si estraevano dai macereti di frana blocchi di calcare che, sottoposti a cottura nelle diverse fornaci esistenti in zona, fornivano calce viva, mentre dalla collina che sovrasta Serravalle veniva estratta la marna da cemento. Altre piccole cave aperte nella zona di Forcàl e lungo il versante del Visentin compreso tra Longhère e Revìne, fornivano il Biancone, una pietra di pregio largamente impiegata per l’edilizia. Quasi tutte queste cave hanno da tempo cessato ogni attività, con la sola eccezione di quelle poste sopra i centri di Revìne e di Lago: qui si estrae, assieme al Biancone, anche la Selce, una pietra che per la sua elevata resistenza all’usura viene impiegata per rivestire i mulini di macinazione nell’industria della ceramica.

La dorsale del Col Visentin, essendo costituita in massima parte da calcari, presenta diverse forme derivate dalla dissoluzione chimica della roccia, ma soprattutto è caratterizzata dall’assenza di un reticolo idrografico a causa dell’elevato grado di permeabilità per fessurazione e per carsismo. In profondità è presente un potente acquifero che alle quote maggiori dà luogo a modesti e saltuari stillicidi, mentre in prossimità del fondovalle alimenta una linea di polle sorgive, a partire da quella di Basso Fadalto e del Vallón della Fontana, sopra il lago Morto, fino a quelle di Cisón di Valmarìno e di Follìna.

Di tutte queste sorgenti carsiche, la più suggestiva dal punto di vista ambientale è quella del Meschio, ma la più importante, per la qualità delle acque e per le portata elevata e costante, è sicuramente quella di Negrisiòla che, insieme alla vicina sorgente di Forcàl, alimenta il pubblico acquedotto della sinistra Piave.

Cenni sulla vegetazione e sulla fauna

Per analizzare in forma omogenea gli aspetti faunistici e vegetazionali del Visentin sud orientale, possiamo suddividere l’area in quattro sistemi: l’ambiente lacustre di fondovalle, le zone agrarie, i boschi e le aree pascolive al di sopra del limite della vegetazione arborea di quota.

L’ambiente lacustre di fondovalle

E’ l’area che maggiormente ha risentito dell’azione dell’uomo. Qui infatti sorgono i centri abitati, gli insediamenti industriali ed importanti arterie stradali che contrastano con il limite dei boschi e delle ormai rare coltivazioni agricole. Il paesaggio lungo la Val Lapisina è famoso per la presenza di laghi di origine post glaciale e tra questi è il lago di Negrisiola quello che offre l’habitat più favorevole all’insediamento animale e vegetale. Alimentato dal fiume Meschio e da altre sorgenti, possiede anche caratteristiche tipicamente palustri, come testimoniato dai fitti canneti e piante acquatiche che contornano le sue sponde. Tra gli anfibi si segnala la salamandra pezzata, i tritoni, il rospo comune e la raganella italica. Notevole la presenza di uccelli, come il tuffetto, il tarabusino, il germano reale, la folaga, la gallinella d'acqua, il porciglione, il piro-piro piccolo, il cuculo, il cannareccione, la cannaiola, l’usignolo di fiume ed il pendolino. Per quanto riguarda i pesci, è presente la trota fario, il temolo, il cavedano, la sanguinerola, la tinca, lo scazzone, specie presenti in parte anche negli altri laghi, oltre ad alcuni rettili come la natrice dal collare e tassellata, il biacco, il colubro liscio, il marasso ed il saettone. I boschi ripariali posti nelle aree di risorgiva immediatamente a sud del lago, sono costituiti da salici, pioppi, ontani e frassino maggiore, mentre nelle pendici a nord del bacino si incontra una formazione mista di carpino nero, frassino orniello, roverella e, nelle esposizioni più fresche, il faggio. Queste tipologie forestali sono riscontrabili anche a ridosso degli altri laghi della valle. Merita una nota a parte il piccolo specchio d’acqua del Lagusèl visibile a monte del lago del Restello, alimentato da risorgive, che offre un piccolo ecosistema isolato.

Le zone agrarie

Abbandonando il fondovalle, si incontrano i primi ripidi pendii che caratterizzano il fianco meridionale del Visentin. Al contrario di quanto avviene nel versante Bellunese, quest’area si distingue per la notevole pendenza che rende il paesaggio particolarmente selvaggio ed apparentemente inaccessibile. Nonostante ciò, in passato è stato possibile rendere coltivabili alcune porzioni di territorio grazie alla realizzazione di terrazzamenti, eretti sfruttando la pietra calcarea locale con la tecnica del muro a secco. Oggi queste opere, che giacciono inutilizzate come retaggio di un’economia agricola di sopravvivenza, rimangono ben visibili nell’area occidentale, specialmente tra Faìs e Revìne dove emergono dai prati falciati. Altrove invece sono rimasti inesorabilmente intrappolati dalla boscaglia, che ha avuto il sopravvento a causa dell'abbandono generato del rapido spopolamento della montagna nel corso del Novecento. A tale proposito c’è da considerare che questo fenomeno qui è stato più forte rispetto ad altre aree Prealpine e ciò ha determinato negli ultimi decenni una regressione dei prati da sfalcio a favore dell’espansione forestale incontrollata, con conseguente incremento di neoformazioni boschive a tutt'oggi ancora poco strutturate. Nelle vicinanze dei nuclei abitati restano attive alcune zone coltivate composte da orti domestici, piccoli vigneti, frutteti e rari oliveti. Alle aree prative si lega la presenza di specie quali la lepre comune ed uccelli come la poiana, l’averla piccola e la civetta. Tra i rettili sono presenti l’orbettino, il saettone ed il biacco. Le superfici boscate rimangono in aree periferiche, laddove la pendenza del suolo non ha permesso la pratica agricola.

I boschi

Già a partire dal fondovalle si incontra il bosco. Nelle fasce altitudinali inferiori e ben esposte dominano il frassino orniello, il carpino nero, la roverella ed il carpino bianco, che cresce solo occasionalmente nella parte occidentale. Si rileva una limitata diffusione dell'acero e del tiglio, maggiormente presenti sul versante sinistro della Val Lapisina, mentre a quote maggiori o lungo i valloni più freschi cresce il faggio, che si insinua anche in formazioni forestali più termofile site a quote inferiori. Nelle superfici boscate occidentali che confinano con l’area di Revìne si incontrano isolati nuclei di castagno in prossimità dei borghi rurali, da sempre una importante risorsa per scopi artigianali ed alimentari. Oggi appare in forte sofferenza a causa delle malattie e, soprattutto, dell’esodo rurale.

La presenza di conifere è spesso sinonimo di antropizzazione, infatti sono state diffuse in maniera massiccia con impianti artificiali voluti dall’uomo all'inizio del 900, quando queste pendici si presentavano brulle e sassose. Oggi queste formazioni che nel tempo hanno avuto una funzione pioniera hanno consentito l'evoluzione dei suoli, che da aridi ghiaioni sono diventati substrati adatti all'affermazione spontanea anche di altre piante, soprattutto latifoglie autoctone.

Per questo negli ultimi decenni sono stati varati dei piani mirati di rinaturalizzazione dei boschi con l’obbiettivo di allontanare le conifere che oramai hanno terminato la loro funzione di pianta pioniera e favorire le specie, soprattutto latifoglie, che naturalmente si sono succedute.

Le aree boscate rappresentano l’ambiente ideale per molte specie animali tipiche dell’ambito forestale. Si possono citare l'allocco, il picchio nero, l'astore, lo sparviere, tutti uccelli piuttosto rari osservabili essenzialmente nei boschi meno disturbati delle quote più elevate. In altre formazioni forestali meno progredite si incontrano invece uccelli quali il fringuello, la capinera, il pettirosso, lo scricciolo, il cuculo, la ghiandaia, il rampichino, il ciuffolotto, oltre a mammiferi come la volpe, il cervo, il capriolo, il tasso, la donnola, la faina, il ghiro ed infine gli anfibi, tra cui spiccano la salamandra pezzata e la rana montana.

Le aree pascolive di quota

Coincidono con la fascia prativa che si estende attorno alle vette maggiori e sono caratterizzate dalla presenza di pascoli. A queste quote gli affioramenti di tipo calcareo, seppur non così frequenti, sono sufficienti ad ospitare alcune piante alpine, talvolta classificabili come relitti glaciali. Nei prati abbandonati è frequente la presenza di arbusti, come la rosa canina, il lampone, il salice, il ginepro ed il corniolo, che vi trovano l’habitat ideale. La fauna è alquanto diversificata in virtù dell’ambiente di margine, posto cioè al limite di contatto tra il bosco ed il prato. Nel periodo estivo si incontrano molte specie di uccelli, come l’allodola, il verdone, il codirosso, il culbianco, la ballerina bianca, la rondine, il rondone, il balestruccio e l’averla piccola. Essi sono osservabili anche in autunno, quando le creste sono interessate dal flusso migratorio. Tra i rapaci si segnalano la poiana, il gheppio, il falco pecchiaiolo e raramente l’aquila. In alcune zone vive il gallo forcello, o fagiano di monte, mentre nelle aree di pascolo spesso si incontra la volpe. Al limite del bosco si incontra il capriolo ed è sempre più frequente la presenza del cinghiale che tende a devastare intere porzioni di prato sgrufolando in cerca di tuberi e rizomi. Ben diversa la situazione del cervo nobile, che negli ultimi decenni ha visto un’autentica esplosione numerica, soprattutto nel vicino Cansiglio. Importante la presenza di un gran numero di pozze d’alpeggio (lame) che concorrono a ricreare un habitat particolarmente favorevole per molte specie animali. Qui infatti si incontrano il rospo comune, la rana montana, l’ululone dal ventre giallo, il tritone alpestre, il tritone crestato, il tritone punteggiato e la natrice dal collare. Queste pozze inoltre sono frequentate da un gran numero di uccelli che nel periodo estivo si raccolgono ad abbeverarsi. Concludendo con alcune citazioni sui rettili, si segnala la presenza della vipera comune, del biacco, del colubro liscio, dell’orbettino, della lucertola e del ramarro.

L’autore

Giovanni Carraro è nato a Pieve di Cadore il 4 marzo 1966 ed attualmente vive e lavora nel settore commerciale a Susegana (TV). La grande passione della montagna lo ha spinto fin da ragazzo ad esplorare gran parte delle montagne Bellunesi e negli ultimi anni a soffermarsi sugli angoli noti e meno noti delle Prealpi trevigiane. È autore dei libri Riscoprire le Prealpi trevigiane e I sentieri nascosti delle Prealpi trevigiane. E’ sommelier AIS e socio CAI della Sezione di Conegliano dal 1989.

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